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La vivibilità del negativo: Qualcosa su Riccardo D'Este

Pubblicato su 25 Ottobre 2013

Se si fosse mai costituito un Club degli Incorreggibili (vedi nota), Riccardo D'Este ne avrebbe fatto parte, per quella parte tenuta con coerenza nelle file dell'opposizione più intransigente. Senza averlo mai frequentato, mi propongo, con questa nota, di presentare qualcosa di ciò che scrisse a vantaggio della critica radicale.

Insieme con Gabriele Pagella, Riccardo D'Este firmò nel gennaio del 1993 un pamphlet dal titolo Quel ramo dell'ago di Narco (ed. 415). La tesi prima dell'argomentazione era la seguente:

“La droga è una merce al più alto livello di concentrazione economica e spettacolare”.

Nel libello si affrontavano, tra gli altri, i temi del proibizionismo, della legalizzazione e della liberalizzazione, ma infine:

“La droga è palesemente una merce, come tutto è palesemente una merce. L'ipotesi savia a cui ci rifacciamo è proprio questa: considerarla per ciò che è ed è perciò che, considerandola una merce, le si vuole togliere quell'eccellenza specifica assegnatale dal proibizionismo, dagli interessi alla sua supervalorizzazione, dalle ideologie e dalle cosiddette morali. Sostenere, come sosteniamo, che le droghe andrebbero vendute, tutte, liberamente in drogherie ed affermare risolutamente che questo solo fatto risolverebbe molti dei problemi accessori determinati dal suo attuale status, e che abbiamo analizzato sopra, non significa affatto che noi amiamo il libero mercato, né il mercato tout court, né la società del capitale che fonda il mercato, né che ci siamo convertiti ad una qualche ideologia liberista. Significa semplicemente dire le cose come stanno e porre i presunti riformatori di fronte alle loro responsabilità.

Nessuna battaglia, almeno da parte nostra, per il trionfo della merce. Ma una battaglia durissima contro tutti coloro che pretendono che la droga sia e continui ad essere una merce eccellente, con i guasti che tutti conosciamo.

Se la libertà reale sarà la fuoriuscita dal mondo dominato dalla merce, è pur vero che la schiavitù reale sta nel non chiamare le cose con il loro nome.”

Comunque sia, l'esito del pamphlet di Pagelle e D'Este era già stato espresso nella “Premessa”, con queste parole chiarissime:

“Questo è un pamphlet di battaglia, per la libertà e per la liberazione. Continuando nel tracciato inesausto ed inesauribile del DIFENDERE E DIFFONDERE LA LIBERTA' OVUNQUE.”

Sarà forse superfluo, ma va ricordato che D'Este non era nuovo all'argomento citato giacché, nel 1990, insieme con altri compagni, aveva curato per le edizioni Nautilus, la pubblicazione di Intorno al Drago. La droga e il suo spettacolo sociale.

Se, ovviamente, non ho la pretesa di svolgere un panegirico della libertà che ne comprenda e sciolga la varietà dei significati - tanto meno da contrapporre ad un'opinione, altra e diversa (?), della libertà, come quella, implicita ed esplicita, nel discorso di D'Este -, non trovo tuttavia necessario condividere le sue conclusioni sul drago. Se a lui e a Pagella appariva conveniente che la merce connotata come droga fosse desacralizzata - perché si svestisse di quell'ipervalorizzazione ideologica che soprattutto nel proibizionismo si rivela, perché diventi finalmente ciò che è, cioè una merce qualunque nel mercato delle merci -, io dico ed affermo che questa storica impressa la compiano, da soli, i modernizzatori del capitale, ma non i suoi affossatori.

D'altronde non sogno neppure di chiedere la liberalizzazione completa della vendita delle armi da fuoco, per un'altra desacralizzazione in nome della libertà.

In nome dell'ovvio, invece, rimarrà da farsi, secondo me, qualche distinzione, perché ci sono sul mercato, legale o nero, merci e merci.

Lo ripeto: la liberalizzazione del mercato è un obiettivo che riguarda i gestori della decomposizione planetaria, ma la guerra contro l'universalità della merce, contro l'essere-merce delle cose, delle idee (e delle persone) e contro la nihilazione del pianeta pertiene alla critica radicale.

In una società liberata, saranno forse tutti liberi di fare qualunque cosa? Non crdo proprio. Per questo non mancheranno dei futuri censori, e le antinomie della libertà, prima o poi, si presenteranno, e presenteranno il conto ai furbi e agli ingenui, e bisognerà rifletterci sopra, per tempo.

In un altro testo (Abolire il carcere, ovvero come sprigionarsi, Nautilus, Torino, 1990) Riccardo D'Este scriveva:

“D'altronde è assai arduo, anche teoreticamente, ipotizzare una società che sia del pari una a-società, una comunità, quale che sia, che non si dia delle leggi o delle regole per la convivenza dei molti e che, dunque, non presupponga, almeno concettualmente, dei trasgressori, ed è assolutamente ridicolo costruire un castello ideologico fondato su idee del tutto improbabili come quello della bontà intrinseca dell'uomo (quando sappiamo che ogni uomo è il precipitato di determinate composizioni sociali) o della forza della Natura e della sua capacità di autoregolamentarsi, quando, se vogliamo essere onesti, manco sappiamo più cosa voglia dire natura, al di là delle elegie nostalgiche, però assai moderne ed amministrative, tinte di verdognolo.”

In quel testo, sul carcere, D'Este conclude scrivendo:

“Mai mi si sentirà dire che, in Italia, la legge di riforma detta Gozzini sia giusta e bella, anzi sempre da me si sentiranno delle critiche radicali. Nello stesso tempo faccio quel poco che posso affinché tutti i detenuti ne usufruiscano il più possibile e, se vi sono spazi effettivi, essa venga migliorata, il che vuol dire s/peggiorata. Mai nessuno mi vedrà in campo a favore delle riforme, ma sempre mi si vedrà in azione affinché le riforme già promulgate vengano estese al massimo.”

Ma, secondo me, battersi per l'abolizione del carcere non è la stessa cosa che battersi per la liberalizzazione del drago. Da una parte ci sono delle vite imprigionate e dall'altra una merce da s/valorizzare e gettare sul mercato libero della concorrenza.

Nel testo citato, D'Este affermava anche:

“Credo che questa società vada scossa dalle sue fondamenta - economiche, sociali, ambientali, mentali, strutturali - e che questa trasformazione radicale la si possa metaforizzare come non il rovesciamento di un guanto (comunque protezione da qualcosa, seppure con il segno rovesciato). Credo, peraltro, che un'associazione societaria, come si è storicamente determinata, non sia inevitabile, mentre è impossibile prescindere, anche in via ipotetica, da comunità umane, di soggetti, in qualche modo in rapporto tra di loro o federate. Credo, infine, che queste comunità possano fare a meno di leggi nella misura in cui esprimono una effettiva dialettica tra le diversità. Ma tutto questo è di là da venire e la vecchia talpa sembra stanca di scavare.”

Il terreno sociale “oltre le leggi” è tutto da inventare, perché l'accenno a una effettiva dialettica tra le diversità fa pensare ad una individuazione coerente delle sanzioni che sia altra cosa da quella somministrazione di pena in seguito a giudizio e applicazione di leggi, che tutti conosciamo. Ma la talpa dovrà ricominciare a scavare e i dominati a riflettere sull'uscire dalla gabbia economica.

In un altro testo, firmato, tra gli altri, anche da Riccardo D'Este, ma precedente quelli citati sopra, perché risale al 1983, si possono leggere queste frasi:

“Abbiamo già detto che la liberazione è per noi un percorso, un processo che va tentato e praticato da subito. Aggiungiamo che non può trattarsi di un percorso lineare, ma di una serie di salti, di rotture, anche di forzature: di più che la possibile realizzazione futura di legami liberi di comunità passa necessariamente attraverso la forza di sperimentazione attuale, l'intelligenza di sapersi situare fuori e contro i valori dominanti, addirittura oltre ad essi; nessun utopismo però, nessuna idea di falansterio (tanto meno nelle miserabili versioni moderne di volontari ghetti che mai depassano la ragione codificata e l'accettazione supina dell'esistente) e quindi nessuna isola felice: se di isola si tratta, cerchiamo l'isola non trovata, anzi pretendiamo di inventarla! Quello che si intende per sperimentazione concreta di libertà e di comunità é tutto dentro la dinamica dell'opposizione ostinata all'esistente societario. La libertà, infatti, può essere sperimentata solo attraverso le forme di negazione materiale dell'illibertà sociale o comunque introiettata individualmente; la comunità reale può essere pre-vissuta come comunità di intenti, di tensioni, di agire. Ciò non è permesso. Per questo la trasgressione assume valenza positiva, seppur degna di smitizzazione e soprattutto di non fissazione. La trasgressione in sé non porta valori comunque umani, ma ne nega altri codificati; se essa, però, si trasforma in riaffermazione differente di ciò che prima ha rifiutato non é altro che forma recuperata, produttiva di comportamento sociale controllabile. La trasgressione cui noi ci riferiamo è quella che contiene tanto la negazione del presente quanto l'allusione al futuro. Non ci interessano certo i ladri che si fanno banchieri né i banchieri che diventano ladri! La trasgressività è quanto, pur prodotto dalla società, tende ad affermare caratteri diversi, antagonici, di comunità. Quando si contrappone il concetto di comunità reale a quello di società - come che si sia storicamente manifestata - non è certo per riprodurre una sorta di guerra di tutti contro tutti, l'homo homini lupus di lontana memoria, né tanto meno per ricordare nostalgicamente le società-comunità primitive (poiché allora effettivamente i due termini si confondevano tra di loro). L'appartenenza reciproca, il riconoscimento delle differenze e la loro corretta valutazione, il superamento di appiattimenti egualitarizzanti, la riscoperta dell'originalità singola e collettiva contro il processo di identificazione: ecco i caratteri dell'essere-vivere comunità, ecco quanto è stato sottomesso e soggiogato dalla forma-società. Perché, siamo chiari, la società umana, se può apparire concetto fascinoso, è d'altronde storicamente e concettualmente falso. Società è patto, regolamentazione, insieme di diritti-doveri, accettazione sì delle possibili diversità ma, nel contempo, loro codificazione, sicché solo alienando parte di sé e del proprio interesse l'uomo può addivenire alla convenzione societaria.

L'anticipazione dei caratteri di comunità non è utopistica seppur, letteralmente, appare utopica, nel senso che oggi non esiste in alcun luogo. Ma anche questo è solo parzialmente vero; non esiste in nessun luogo in modo codificato o istituzionalizzato, proprio perché la sua natura è ribelle al codice e alle istituzioni; è esistita invece sul filo del tempo, nei tentativi rivoluzionari della storia, ed esiste, ancorché sommersa, nelle esperienze di ri-aggregazione liberatoria che contengono grossi elementi di disgregazione del già-costituito, del già formalizzato.

L'anticipazione di cui parliamo è di natura duplice: da un lato si evidenzia come eccesso, come negazione di ciò che esiste e disaffezione originale ad esso; dall'altro si esprime come innovazione della qualità dei rapporti tra i soggetti implicati in questa forma di ostilità all'esistente. Le relazioni umane che si determinano nella terra di nessuno sottratta al controllo possono divenire effettiva anticipazione dei caratteri sopra detti. Attenzione però, questo è possibile solo quando la trasgressione, l'affermazione di sé nuova e la capacità di comunicare il vissuto si intrecciano strettamente tra loro. (...)

L'anticipazione di cui parliamo è presto definita: è la pratica di agire libertà dentro le chiusure imposte. Ciò avviene in modi volta a volta singolari dentro i territori del capitale - e tutti lo sono - e soprattutto quel potente veicolo di controllo sociale, ma nel contempo di sua possibile negazione, che è la metropoli, la città che invade con i suoi nessi ed i suoi rapporti tutti gli spazi circostanti. (...)

La soluzione sociale che vogliamo proporre è tutta dentro questa pratica dell'anticipazione, questo prodursi di tensioni tra vari segmenti sociali e, soprattutto, riguardo la vettorialità rivoluzionaria che in molte lotte, ancorché limitate o scomposte, è visibile da lettori attenti.” (le frasi citate sono tratte da Ogni uomo deve avere delle buone ragioni per alzarsi al mattino, che è inserito in Italia 1983 prigionieri politici, processi, progetti, Edizioni Cooperativa Apache - gli autori, che si trovavano a Fossombrone nel febbraio-marzo 1983, sono ANGELO MONACO, BRUNO PEIROLO, CESARE MAINO, CLAUDIO WACCHER, DARIO CORBELLA, ERMANNO COLLEDA, GRAZIANO ESPOSITO, JUAN SOTO PAILLACAR, LUCA FRASSINETI, MASSIMO DOMENICHINI, RICCARDO D'ESTE).

Quello su cui dissento è sostanzialmente il tono, perché fa riferimento ad un'ideologia dell'eccesso, e oltre a ciò a una generale trasgressività, ad un antagonismo bellicoso, che costituiscono più un limite che un punto di forza per un reale progetto di superamento di questa società, che si deve smettere di presentare come un affare esclusivo di guerrieri.

Quando Riccardo D'Este concludeva il suo Qualcosa (il testo è datato 3 novembre 1994 – in Italia è stato pubblicato dal centro di documentazione porfido), dava queste indicazioni:

“Che cosa fare, dunque, contro l'iterazione del nulla, contro la dominazione dell'inorganico, contro l'assenza di un qualche centro (tutto è necroticamente diffuso, anche se effettivamente ci sono soggetti specifici che si incaricano di dirigere e controllare la necrosi) contro cui scagliarsi? La domanda, in apparenza senza possibilità di risposta, una qualche risposta invece ce l'ha: la rivolta dell'organico (dei corpi) in ogni situazione possibile, la massima resistenza, in ogni campo, al neomoderno e nessuna collaborazione con qualsivoglia espressione di esso, l'attacco virulento al Nihil organizzato, costruendo senso e sua comunicazione. Non si possono fornire delle indicazioni più precise. Ma alcune ipotesi sono già fin d'ora chiare:

* rifiutarsi di assumere i termini della politica comunemente intesa e della democrazia come costitutivi di una qualche azione sovvertente o trasformativa;

* respingere ogni possibile lusinga della partecipazione alla cosiddetta società civile: purtroppo ci siamo già dentro quando lavoriamo, quando pensiamo di godere del tempo libero, quando giocoforza sopportiamo il dominio;

* cominciare, o continuare, a vivere smodatamente usando questa categoria come criterio.”

Ritengo che queste indicazioni siano condivisibili, a parte quell'avverbio “smodatamente”,e solo perché il vivere la propria vita, sono affari miei, e tuoi: lettrice o lettore, smodatamente o no.

1 luglio 2006

Nota

Il nome Club degli Incorreggibili era una delle firme pensate dal gruppo di detenuti, autore del testo sopra citato, Ogni uomo deve avere delle buone ragioni per alzarsi al mattino, che così ricorda la questione della firma collettiva, poi, a dire il vero, rifiutata “per l'estrema varietà dei soggetti” firmatari:

“Tra un bicchiere e l'altro, ne avevamo trovate anche di buone. Da un irridente e sorridente club degli incorreggibili - incorreggibili nel tentare innovazioni e sperimentare intelligenza, a dispetto di tutto, art. 90 compreso - ad un più enigmatico ma, svelato il mistero, simpaticissimo gli amici del solitone (chiamasi solitone un'onda che, a differenza delle consorelle, non si infrange né si spezza o interrompe, continuando a riprodursi a lungo, quasi inesauribilmente, pur modificandosi. Il fenomeno fu rilevato per la prima volta da un gentiluomo inglese dell'800 che, cavalcando lungo un canale, si accorse di questa onda curiosa, desueta ed ostinata; oggi, per la miseria utilitaristica della scienza, le leggi del solitone sono studiate da molti matematici e fisici e trovano implicazioni nelle onde elettromagnetiche nonché applicazioni nel campo delle fibre ottiche e del laser).

Diciamo la verità: queste ed altre possibili sigle ci divertivano parecchio, e divertirci per noi è molto!”

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